Bambini allontanati dai genitori per “eccesso di cure”

Lettera aperta all’assessore sul caso dei bambini allontanati per eccesso di cure
Egregio
Assessore alla salute, integrazione socio-sanitaria, politiche sociali e famiglia
Dott.ssa Maria Sandra Telesca
fax 0432 555646, 040 3775632
e-mail renzo.deangeli@regione.fvg.it

Oggetto: Lettera aperta all’assessore sul caso dei bambini allontanati per eccesso di cure

Gentile dott.ssa Telesca,
Nei giorni scorsi più di cento persone iscritte al gruppo di Facebook Rari e Rapiti https://www.facebook.com/groups/1594804557477959/, che conta ormai più di 6.000 iscritti, le hanno scritto una lettera per invitarla ad intervenire sulla vicenda della coppia di Gorizia. Il CCDU condivide pienamente il contenuto di quella lettera, e le scriviamo per chiederle se intenda fare qualcosa per tranquillizzare queste famiglie preoccupate?
Secondo quanto riportato da alcuni autorevoli organi di stampa regionali e nazionali, su richiesta della Procura AssessoreSalute_Telescadi Gorizia, e su segnalazione iniziale di un neuropsichiatra dall’AAS2 Isontina che sosteneva che erano i genitori a soffrire di un dubbio e controverso disturbo mentale, il Tribunale dei minori di Trieste ha allontanato due bambini disabili dall’amore e dalle cure della loro famiglia perché i genitori erano ritenuti “colpevoli” di somministrare cure eccessive a questi bambini. Cure, a quanto risulta, sempre prescritte dagli specialisti, anche del Friuli Venezia Giulia.
Sempre secondo quanto riferito dai media regionali e nazionali, la malattia e le relative cure dei bambini sono state certificate, oltre che dal Besta di Milano, anche dal Centro regionale per le malattie rare del professor Bruno Bembi di Udine. Inoltre la disabilità dei minori è stata più volte accertata, nella Regione Friuli Venezia Giulia, dalla Commissione Medica ASL e INPS per l’accertamento dell’invalidità.
Il Tribunale dei minori di Trieste chiede ora ad un perito di valutare diagnosi, cure e prescrizioni farmacologiche del Centro Regionale per le Malattie Rare del professor Bruno Bembi di Udine, dell’Istituto Neurologico “Carlo Besta” di Milano e di varie altre strutture regionali che hanno curato i bambini in questione. Questo mina direttamente la credibilità e affidabilità di prestigiose strutture sanitarie regionali e nazionali: numerose famiglie iscritte al gruppo Facebook “Rari e Rapiti” oggi non si fiderebbero del SSN friulano, temendo che una perizia psichiatrica strampalata possa risultare nella perdita dei loro figli.
Ci appelliamo a lei, chiedendole d’intervenire per assicurarsi che venga fatta rapidamente chiarezza sulla validità delle strutture sanitarie della Regione Friuli Venezia Giulia e per ricomporre al più presto il nucleo familiare come ha affermato pubblicamente il direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Azienda sanitaria Isontina Friulana-Isontino, dottor Franco Perazza.
In attesa di una sua cortese risposta porgiamo distinti saluti,

Silvio De Fanti
Vicepresidente del Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani Onlus

https://www.ccdu.org/comunicati/lettera-aperta-assessore-caso-eccesso-cure

L’esperimento che confuta la pischiatria

L’esperimento di Rosenhan

David Rosenhan

Lo psicologo David Rosenhan nel 1973 condusse un esperimento sulla validità della diagnosi psichiatrica.
Il suo studio fu pubblicato sul giornale Science con il titolo “On being sane in insane places” (“Sull’essere sani in luoghi matti“) ed è considerato come una delle più importanti critiche alle diagnosi psichiatriche. Rosenhan inviò di nascosto presso alcune istituzione psichiatriche degli pseudopazienti (incluso sé stesso) che fingevano alcuni sintomi di squilibrio.

Gli otto pseudopazienti costituivano un gruppo eterogeneo, per professione, età e sesso e utilizzarono degli pseudonimi per evitare di rimanere bollati a vita con diagnosi psichiatriche. Anche gli ospedali furono scelti in modo da rappresentare, come tipologia e distribuzione geografica, uno specchio realistico della situazione nazionale americana.

Lo pseudopaziente arrivava in accettazione lamentandosi di aver sentito delle voci che gli dicevano le parole “vuoto”, “cavo” e “inconsistente”. Queste erano le uniche bugie: tutto il resto (i rapporti con i genitori e i fratelli, con il coniuge e i figli, con i compagni di lavoro e di scuola) fu raccontato dagli pseudopazienti in maniera veritiera.

Immediatamente dopo l’ammissione nel reparto psichiatrico, lo pseudopaziente cessava di simulare ogni sintomo di anormalità e iniziava a comportarsi in reparto così come si comportava “normalmente”, parlando con i pazienti e con lo staff così come avrebbe fatto abitualmente. Gli stessi infermieri confermavano che il loro comportamento era “amichevole”, “collaboravano” e “non mostravano alcun segno della loro anormalità”.

Gli pseudopazienti non furono mai identificati come tali. Ammessi con una diagnosi di schizofrenia, con una sola eccezione, furono tutti dimessi con una diagnosi di schizofrenia “in via di remissione”.
Questo dettaglio non dovrebbe passare inosservato: sta a indicare che durante il ricovero nessuno aveva mai sospettato la messinscena. Dunque, se lo pseudopaziente doveva essere dimesso, la sua malattia doveva essere “in via di remissione”: secondo lo psichiatra, non era del tutto sano, né mai lo era stato.

Lo staff di un noto istituto psichiatrico, avendo ricevuto notizia di questo esperimento, sfidò Rosenhan a inviare i suoi pseudopazienti, certi che non avrebbero commesso errori così grossolani. Il personale di questo istituto fu dunque avvisato: in un certo momento, nel corso dei tre mesi successivi, uno o più pseudopazienti si sarebbero presentati in accettazione. Al personale fu richiesto di classificare ogni paziente secondo la probabilità che si trattasse di uno pseudopaziente. Su 193 pazienti arrivati in questi tre mesi, l’istituto identificò ben quarantuno pseudopazienti, mentre altri ventitré furono considerati “sospetti” da almeno uno psichiatra. In realtà, Rosenhan non aveva inviato nessuno!

L’autore dello studio concluse:

Qualsiasi processo diagnostico che si presti ad errori così massicci non può essere considerato molto attendibile.

Alcuni psichiatri hanno rifiutato l’esperimento di Rosenhan: le diagnosi mediche – argomentano – dipendono inevitabilmente da quanto riferisce il paziente. A supporto di ciò citano un immaginario pseudopaziente che, dopo avere bevuto mezzo litro di sangue, si presenti al pronto soccorso vomitando sangue: gli verrebbe immediatamente diagnosticata un’ulcera. Quest’argomentazione, tuttavia, presenta quattro incongruenze:

  1. Il paziente descritto non racconta di sputare sangue: lo fa davanti ai medici (i medici osservano dunque un segno oggettivo). Gli pseudopazienti di Rosenhan raccontavano qualcosa (un sintomo – non un segno).
  2. Un paziente che sputi mezzo litro di sangue appare in una situazione di rischio, allo stesso tempo, immediato e grave. Lo stesso non si può dire per chi senta una voce e lo racconti standosene serenamente seduto. In una condizione meno urgente, un paziente che lamenti dolore al braccio dopo una caduta non viene ingessato senza una radiografia.
  3. In una situazione di minore emergenza, lo staff del pronto soccorso eseguirebbe di certo ulteriori esami e accertamenti, che porterebbero a escludere l’ulcera e scoprire il bluff.
  4. In ogni caso, se il paziente smettesse all’improvviso di simulare il sintomo e rimanesse per qualche tempo in reparto sotto osservazione, non verrebbe dimesso con un’ulcera “in remissione”.

L’esperimento di Rosenhan dimostra ciò che il CCDU sostiene da anni: la psichiatria non è una scienza, e la sua qualifica di branca della medicina è usurpata.

Fonte: https://www.ccdu.org/esperimento-rosenhan

PSICHIATRIA: UNA PSEUDOSCIENZA

Psicologia (studio dell’anima) e psichiatria (medicina dell’anima) si occupano di una cosa che, per definizione, non può essere misurata né divenire oggetto di osservazione scientifica secondo lo standard galileiano. Queste discipline, dunque, dovrebbero afferire al settore della conoscenza umanistica, non scientifica: l’infondata pretesa di scientificità è spesso causa di abusi e violazioni dei diritti umani.

Il potere psichiatrico nelle aule di tribunale, il potere di decidere sulla capacità d’intendere o volere, o stabilire quale genitore debba avere la custodia dei figli in un caso di divorzio, si basa sul presupposto che la psichiatria sia una scienza, in grado di produrre perizie oggettive quanto quelle ingegneristiche o mediche. Queste perizie, invece, sono completamente arbitrarie e soggettive. E’ sufficiente assistere a un processo per rendersi conto di come le diagnosi presentate dall’accusa e dalla difesa sullo stesso imputato siano sempre diametralmente opposte (non semplicemente “divergenti”) – un divario che, per frequenza ed entità, non ha eguali nelle discipline mediche e scientifiche.

In maniera simile, il potere di ordinare un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) presuppone l’esistenza di  un metro di giudizio oggettivo per stabilire chi sia bisognoso di cure urgenti ma troppo insano per rendersene conto. Attenzione,  si accetta che – per esempio – un epatologo possa conoscere lo stato del tuo fegato meglio di te.  Egli, però, può produrre prove oggettive a riguardo, mentre lo psichiatra può produrre solamente la sua opinione – tipicamente contraria a quella della persona soggetta alla cosiddetta cura. Inoltre, nonostante l’oggettività delle sue diagnosi, l’epatologo non esegue trattamenti coatti.

L’idea di obbligare una persona alle cure psichiatriche, come nel TSO o negli OPG (ospedale psichiatrico giudiziario), è di per sé assurda.  Se le cosiddette malattie mentali consistono – per definizione – in pensieri o comportamenti, il risultato di queste presunte cure dovrebbe essere un cambiamento di pensiero o comportamento. Non si vede però come una persona possa arrivare a modificare il proprio punto di vista, o il proprio comportamento, se le cure che dovrebbero causare questi cambiamenti non sono scelte da lui ma gli sono imposte con la forza. Gli psichiatri, come colti da delirio di onnipotenza, si ritengono depositari di una conoscenza esoterica con cui leggere i pensieri altrui e modificarli a piacere.

Questo modo di agire rivela la natura essenzialmente politica della psichiatria, organo di controllo sociale simile alla polizia (e niente affatto alla medicina) che trova le sue origini nell’inquisizione. Come moderni Torquemada, gli psichiatri usano la forza per obbligare il malcapitato a confessare e ammettere la sua malattia: condizione necessaria per essere dichiarano "guarito". Il loro manuale, al pari del Malleus Maleficarum, lo insegna: come una strega, se il paziente nega la malattia, questa negazione è essa stessa prova di malattia – un comma 22 senza scampo. Persino  l’uso dell’eufemismo per mascherare la violenza è identico, e l’auto da fé diventa trattamento sanitario.

A riprova della natura essenzialmente politica della psichiatria, si veda il modo bizzarro con cui vengono scoperti (o cancellati) i cosiddetti disturbi mentali.  Per esempio, nell’ultima edizione del DSM (Manuale Diagnostico e Statistico – il testo sacro della psichiatria) la pedofilia era stata definita come un "orientamento sessuale". La cosa causò innumerevoli reazioni indignate, e l’APA (American Psychiatric Association) fece marcia indietro.  Sorte opposta era toccata all’omosessualità, considerata malattia fino agli anni settanta e poi depennata dal DSM per motivi di correttezza politica.

Non intendo qui entrare nel merito, e stabilire se pedofilia o omosessualità debbano essere considerate malattie o meno: in ogni caso il concetto di malattia mentale è talmente vago e opinabile da consentire qualsiasi interpretazione. Critico, invece, il metodo antiscientifico: l’alzata di mano su opinioni dettate da motivi di opportunità. Come se un congresso di epatologi, sull’onda di un’ipotetica accettazione sociale dell’abuso di alcol, si trovasse a stabilire con voto a maggioranza, e senz’altra osservazione scientifica, che l’epatite non è più una malattia.

Da un po’ di tempo sul web spopolano gli allerta riguardo la pericolosità degli psicofarmaci (sacrosanti, basta leggere i bugiardini per rendersene conto) ma il problema, come si diceva una volta, è a monte: lo psicofarmaco senza effetti collaterali non potrà mai esistere perché la stessa pillola è l’effetto collaterale.

Infatti, come l’uso del concetto di malattia mentale per definire un comportamento lede i principi di libertà e responsabilità (chi ruba non è più un ladro ma un cleptomane, chi incendia non è un incendiario ma un piromane, ecc.), l’idea stessa di curarla con una pillola mina i concetti di libero arbitrio e agenzia morale. La persona non è più un agente morale dotato di libero arbitrio, ma un robot governato da leggi chimiche. Si arriva addirittura a prescrivere stimolanti anfetaminici ai bambini cosiddetti iperattivi. Ma attenzione: a prescindere dalla pericolosità di queste pillole, riconosciuta da innumerevoli pubblicazioni scientifiche, stiamo crescendo una futura generazione avvezza a utilizzare pillole per risolvere i problemi del vivere. A questo proposito si veda la sfacciataggine con cui ancora oggi viene invocato lo squilibrio chimico nel cervello come causa dei disturbi mentali: questo modello non è mai stato dimostrato scientificamente, e oggi gli stessi  neuroscienziati ammettono che si è trattato di un abbaglio, ma si continua a usarlo a scopo propagandistico per vendere psicofarmaci.

Intendiamoci: alcune persone sono soggette  a sofferenza emotiva, hanno seri problemi a rapportarsi con gli altri e necessitano di aiuto. Ma la professione di chi fornisce questo aiuto dovrebbe essere inquadrata nell’alveo delle conoscenze umanistiche – non scientifiche. E, soprattutto, i loro rimedi non dovrebbero mai essere somministrati in maniera coatta, ma solo su base volontaria. Esistono persone -  psicoanalisti, maestri yoga o di meditazione, preti, comportamentalisti ecc. -  che aiutano la gente nei momenti difficili, senza però atteggiarsi a medici o violare con la forza i diritti fondamentali della persona.

Autore: Alberto Brugnettini – fisico
CCDU onlus
al.bru@tiscali.it

Fonte: ccdu.org