Bambini allontanati dai genitori per “eccesso di cure”

Lettera aperta all’assessore sul caso dei bambini allontanati per eccesso di cure
Egregio
Assessore alla salute, integrazione socio-sanitaria, politiche sociali e famiglia
Dott.ssa Maria Sandra Telesca
fax 0432 555646, 040 3775632
e-mail renzo.deangeli@regione.fvg.it

Oggetto: Lettera aperta all’assessore sul caso dei bambini allontanati per eccesso di cure

Gentile dott.ssa Telesca,
Nei giorni scorsi più di cento persone iscritte al gruppo di Facebook Rari e Rapiti https://www.facebook.com/groups/1594804557477959/, che conta ormai più di 6.000 iscritti, le hanno scritto una lettera per invitarla ad intervenire sulla vicenda della coppia di Gorizia. Il CCDU condivide pienamente il contenuto di quella lettera, e le scriviamo per chiederle se intenda fare qualcosa per tranquillizzare queste famiglie preoccupate?
Secondo quanto riportato da alcuni autorevoli organi di stampa regionali e nazionali, su richiesta della Procura AssessoreSalute_Telescadi Gorizia, e su segnalazione iniziale di un neuropsichiatra dall’AAS2 Isontina che sosteneva che erano i genitori a soffrire di un dubbio e controverso disturbo mentale, il Tribunale dei minori di Trieste ha allontanato due bambini disabili dall’amore e dalle cure della loro famiglia perché i genitori erano ritenuti “colpevoli” di somministrare cure eccessive a questi bambini. Cure, a quanto risulta, sempre prescritte dagli specialisti, anche del Friuli Venezia Giulia.
Sempre secondo quanto riferito dai media regionali e nazionali, la malattia e le relative cure dei bambini sono state certificate, oltre che dal Besta di Milano, anche dal Centro regionale per le malattie rare del professor Bruno Bembi di Udine. Inoltre la disabilità dei minori è stata più volte accertata, nella Regione Friuli Venezia Giulia, dalla Commissione Medica ASL e INPS per l’accertamento dell’invalidità.
Il Tribunale dei minori di Trieste chiede ora ad un perito di valutare diagnosi, cure e prescrizioni farmacologiche del Centro Regionale per le Malattie Rare del professor Bruno Bembi di Udine, dell’Istituto Neurologico “Carlo Besta” di Milano e di varie altre strutture regionali che hanno curato i bambini in questione. Questo mina direttamente la credibilità e affidabilità di prestigiose strutture sanitarie regionali e nazionali: numerose famiglie iscritte al gruppo Facebook “Rari e Rapiti” oggi non si fiderebbero del SSN friulano, temendo che una perizia psichiatrica strampalata possa risultare nella perdita dei loro figli.
Ci appelliamo a lei, chiedendole d’intervenire per assicurarsi che venga fatta rapidamente chiarezza sulla validità delle strutture sanitarie della Regione Friuli Venezia Giulia e per ricomporre al più presto il nucleo familiare come ha affermato pubblicamente il direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Azienda sanitaria Isontina Friulana-Isontino, dottor Franco Perazza.
In attesa di una sua cortese risposta porgiamo distinti saluti,

Silvio De Fanti
Vicepresidente del Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani Onlus

https://www.ccdu.org/comunicati/lettera-aperta-assessore-caso-eccesso-cure

Infermiera killer: un altro successo della psichiatria

Chissà perché non sono sorpreso che l’infermiera fosse in cura psichiatrica!

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L’infermiera killer era depressa e con problemi di alcol e psicofarmaci

Tredici pazienti uccisi con inutili dosi di eparina
ANSA

I Nas durante la perquisizione in ospedale

31/03/2016
STEFANO PEZZINI
PIOMBINO (LIVORNO)

Era depressa, usava ed abusava di alcol e psicofarmaci: non c’è un motivo vero e proprio ma una situazione psicologica che avrebbe trasformato una infermiera di lungo corso in una presunta assassina, accusata di aver ucciso volontariamente 13 pazienti ricoverati all’ospedale di Piombino, provincia di Livorno. Fausta Bonino, 55 anni, originaria di Savona ma dagli anni ’80 in Toscana assieme al marito e ai due figli, lavorava nel reparto di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale di Piombino. I Carabinieri del Nas le contestano l’accusa di omicidio continuato aggravato a danno di pazienti. Fausta Bonino avrebbe utilizzato dosi massicce di eparina, un farmaco anticoagulante non previsto dalle terapie prescritte alle vittime, per uccidere i pazienti. La presenza di questo farmaco è stata riscontrata nei rispettivi esami ematochimici effettuati sui pazienti nel corso dell’ordinario monitoraggio clinico, che hanno evidenziato una concentrazione, in alcuni casi, anche 10 volte superiore rispetto a quelle compatibili con le consentite dosi terapeutiche. I pazienti deceduti per emorragia, uomini e donne di età compresa fra i 61 e gli 88 anni, in molti casi avevano patologie per le quali la somministrazione dell’eparina non rientrava nelle possibili terapie. L’infermiera, proprio per l’alta percentuale di decessi nel reparto dove lavorava, era stata trasferita. E dopo il trasferimento nel reparto dove prestava servizio si è passati dal 20% al 12% del tasso di mortalità. Abbastanza per fare scattare l’indagine dei carabinieri.

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Sparatoria all’Umpqua Community College: altro successo della psichiatria?

Mentre Obama è indaffarato a far credere che la causa delle 39 sparatorie da quando si è insediato sia nelle armi stesse (e non lo stato mentale di chi le usa), persone innocenti continuano a morire e i sopravvissuti a soffrire.

Quanto dovrà durare ancora prima che i veri colpevoli comincino a pagare?


Oregon: Another Mass Shooting, Another Psychiatric Drug? 35 School Shootings/Mass Stabbings Tied to Psychiatric Drugs

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Despite 22 international drug regulatory warnings citing violence, psychosis, mania and even homicidal ideation as side effects of these drugs, there has yet to be a federal investigation to determine the extent of mass induced acts of violence that could be caused by psychiatric drug use.

By Kelly Patricia O’Meara
October 2, 2015

Law enforcement officials identified 26-year old, Chris Harper Mercer, as the gunman who, yesterday, killed 10 people and wounded seven others at Umpqua Community College in southwestern Oregon. It appears Mercer is another in a long list of school shooters who have a history of mental health services and, more likely than not, had been prescribed psychiatric drugs.

Like so many of the recent perpetrators of mass violence, Mercer’s mental health history is well documented having, according to the Los Angeles Times, graduated from the Switzer Learning Center in Torrance, Ca., which serves students from 3rd grade to 22 years of age who have moderate to severe learning disabilities, emotional issues, attention problems and behavioral disorders. One former neighbor told the press, “she (Mercer’s mother) said, ‘My son is dealing with some mental issues.” The only question that remains unanswered is what psychiatric diagnosis had Mercer been labeled with and what was his psychiatric drug “treatment” regimen?

It is equally important to note that this mass attack occurred within a couple of weeks of the mainstream press, such as the LA Times and Reuters, exposing the link between antidepressants and violence. The recently released research reveals that 15 to 24 year olds taking antidepressants were nearly 50% more likely to be convicted of a violent crime such as homicide, assault, arson, robbery, kidnapping and sexual assault offenses when taking antidepressants than when they were not.

Given that at least 35 school shootings and/or school associated acts of violence (which includes guns, knives, and swords) with 169 wounded and 79 killed have been committed by students and others taking or withdrawing from psychiatric drugs, consideration of this connection can no longer be ignored.

According to an article posted in the Oregonian, “There are a number of indications that Mercer had mental health or behavioral issues. His screen name on some social media sites was ‘lithium love.’ Lithium is a psychiatric medication.

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A neighbor told The New York Times that Mercer’s mother had told a neighbor “My son is dealing with some mental issues,” and the U.S. Army confirmed Friday it discharged Mercer after he spent a month in basic training in 2008. “A review of Army records indicate that Christopher Sean Harper-Mercer was in service at Ft. Jackson, S.C., from 5 November-11 December 2008 but discharged for failing to meet the minimum administrative standards to serve in the U.S. Army,”

The list of recent mass shooters with a history of mental health services and psychiatric drug “treatment” include John Russell Houser who, in July of this year, opened fire in a Lafayette, LA, movie theater, Aurora, Co., shooter, James Holmes, Fort Hood shooter, Ivan Lopez and Washington Navy Yard shooter, Aaron Alexis.

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All the above had been prescribed psychiatric drugs known to cause hostility, abnormal behavior, mania, violence, and suicidal and homicidal ideation and carry serious drug warnings both in the U.S. and internationally. Despite 22 international drug regulatory warnings citing violence, psychosis, mania and even homicidal ideation as side effects of these drugs, there has yet to be a federal investigation to determine the extent of mass induced acts of violence that could be caused by psychiatric drug use.

Given the obvious adverse events associated with psychiatric drug “treatment,” whether Mercer has a psychiatric drug history may be key to understanding the violent behavior.

Michael Moore, filmmaker, Bowling for Columbine: “In bowling for Columbine we never really came up with the answer in terms of why this happened…. I think we did a good job of really exposing all the reasons that were given were a bunch of BS, you know Marilyn Manson caused them to do it, this this or that caused them to do it and none of it really made any sense.

“That’s why I believe there should be an investigation in terms of what pharmaceuticals, prescribed pharmaceuticals these kids were on…. Imagine how people would totally rethink things, grasping for every little straw they can to explain how something like columbine happens when it could be nothing more than this.

“It’s an extremely legitimate question to post and it demands and investigation.”

Kelly Patricia O’Meara is an award-winning former investigative reporter for the Washington Times’ Insight Magazine, penning dozens of articles exposing the fraud of psychiatric diagnosis and the dangers of the psychiatric drugs—including her ground-breaking 1999 cover story, “Guns & Doses,” exposing the link between psychiatric drugs and acts of senseless violence. She is also the author of the highly acclaimed book, Psyched Out: How Psychiatry Sells Mental Illness and Pushes Pills that Kill. Prior to working as an investigative journalist, O’Meara spent sixteen years on Capitol Hill as a congressional staffer to four Members of Congress. She holds a B.S. in Political Science from the University of Maryland.

Fonte: http://www.cchrint.org/2015/10/02/oregon-another-mass-shooting-another-psychiatric-drug-35-school-shootingsmass-stabbings-tied-to-psychiatric-drugs/

psicobaggianate in bermuda e infradito

Tensione padre-operatori: lo psichiatra “condanna” il padre a visite protette con il figlio

Per il CTU è “molto probabile” che il bambino abbia “percepito” o assistito a tensioni e discussioni tra il padre e gli operatori. Soluzione: visite protette e padre inviato dallo psichiatra.
Rovereto. Dopo i recenti miglioramenti della giustizia minorile trentina, speravamo di non dover più assistere all’appiattimento dei giudici su perizie psichiatriche soggettive: purtroppo non è così. Un padre di Rovereto si è rivolto a noi per segnalare la perizia di uno psichiatra trentino che malauguratamente conosciamo già.
Di questo psichiatra si erano già occupati i giornali locali, quando era stato segnalato per essersi presentato da un padre in pantaloncini e ciabatte nel corso di una perizia ufficiale del tribunale. Il padre, ex ufficiale della Guardia di finanza che aveva cresciuto cinque figli fino alla maggiore età, aveva definito pubblicamente la perizia di questo consulente come un “capolavoro di superficialità e contraddizioni”. Non è tutto. Questo stesso psichiatra era stato segnalato dai media per aver partecipato a una perizia in cui, in soli 45 minuti e con un bambino di 9 mesi in braccio, a una mamma era stato ravvisato un “vero e proprio disturbo psichiatrico (disturbo di personalità) con tratti personologici di tipo narcisistico.”
Tornando alla vicenda in questione, lo psichiatra scrive espressamente: “… questo CTU ritiene che questa difficoltà di Sergio (nome di fantasia) vada principalmente riferita a dei fattori ambientali che hanno innescato una viva emotività e timore: stando a quanto è ricostruibile dalla documentazione analizzata, è molto probabile che il minore abbia percepito o abbia assistito a qualche tensione o discussione tra il padre e gli operatori attivati.” Nel paragrafo successivo, però, in merito al disagio di Sergio, il perito ammette la “difficoltà di individuarne delle ragioni precise…”. Nonostante quest’incertezza, si dispone che il padre debba vedere il figlio in visite protette, consigliando addirittura la presa in carico da parte di uno psichiatra (in palese violazione di una recentissima sentenza della Cassazione che ha stabilito il divieto d’imporre trattamenti terapeutici ai genitori perché in contrasto col divieto d’imporre trattamenti sanitari).
Certamente c’è la necessità di tutelare un bambino, ma la decisione del consulente di non autorizzare le visite libere con il padre sembra incomprensibile, e non possiamo esimerci dal segnalare l’apparente appiattimento del tribunale sulle valutazioni di questo perito, le perplessità suscitate dalla valutazione di cui sopra e altre possibili irregolarità che abbiamo riscontrato:

  • Pare che il consulente abbia fatto al bambino delle domande suggestive (e dei disegni suggestivi) incontrandolo a casa della madre, senza neppure vedere il bambino con il padre per fare un confronto tra le due realtà.
  • Il consulente non avrebbe incluso nella perizia le ultime relazioni positive in merito ai rapporti tra padre e figlio, e avrebbe addirittura omesso di riferire l’avvio di un percorso di visite libere padre-figlio finalizzato alla liberalizzazione degli incontri (come chiesto dai Servizi stessi al Tribunale dei Minori in base a indicazioni della psicoterapeuta incaricata). Percorso interrotto per la negazione degli accordi da parte della madre, cosa inaspettatamente recepita dal servizio sociale.
  • Il consulente avrebbe incontrato gli Assistenti sociali nonostante un contenzioso penale in corso tra il padre e gli stessi, e una richiesta di azione disciplinare inoltrata all’Ordine regionale, e quindi in presenza di un palese conflitto d’interessi.

Chiediamo sia fatta chiarezza augurandoci che l’Ordine dei Medici decida di indagare, anche in assenza di un esposto, come ha fatto recentemente l’Ordine degli Assistenti sociali. Invitiamo altresì altri genitori e cittadini a farsi avanti e a denunciare qualsiasi abuso subito a causa di perizie o valutazioni di natura psicologica e psichiatrica. Il clima è cambiato, ma la tendenza a emettere sentenze basate solo su perizie pseudoscientifiche, per loro natura soggettive e arbitrarie, è dura a morire: occorre continuare l’opera di denuncia e informazione, per una riforma radicale del diritto minorile.

Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani Onlus

Quello che segue, è tutt’altro che un episodio isolato di violenza psichiatrica

Quel giorno, il 10 ottobre 2005, subii una violenza fisica e mentale, una violenza inaudita…

Violenza TSOCome può una ragazza immaginare che, a causa di una semplice sofferenza emotiva, in pochi mesi si possa trovare a lottare per la propria libertà contro coloro che dovrebbero invece aiutarla. Come si può pensare che, in richiesta di aiuto, si possa ricevere un trattamento degno del più pericoloso dei serial killer. Eppure è ciò che è successo:

Sono una ragazza di 33 anni ed abito in Versilia. Nell’ottobre 2005 ho subito un T.S.O.

Alcuni mesi prima mi ero rivolta ad uno psichiatra privato di Massa, il dottor G.A., per un malessere provocato da una serie di eventi stressanti che si erano verificati nella mia vita familiare e lavorativa. Il dott. G.A. mi prescrisse Anafranil 75 mg, 2 compresse al giorno, Lexotan, 20-30 gocce al bisogno. Mi sentivo un po’ meglio ma il Lexotan su di me non aveva effetto: o non avevo bisogno di prenderlo o, se mi trovavo in una situazione che generava preoccupazione, non era efficace. Così nei mesi successivi torno un paio di volte dal dott. G.A. chiedendogli di prescrivermi un ansiolitico diverso.

Entrambe le volte mi ha risposto:

No, non cambiamo farmaco, continua a usare il Lexotan, ne puoi prendere anche 50-60 gocce fino a 3-4 volte al giorno se ne senti il bisogno, tanto prima che ti avveleni con il Lexotan ne puoi bere anche 2 boccette.

Era presente anche il mio fidanzato (infatti nei mesi successivi è capitato che anche lui in situazioni emotivamente difficili assumesse Lexotan).

Passa un po’ di tempo, durante il quale io non prendo tutte le gocce che il dott. G.A. mi ha consigliato, perché mi sembra una dose esagerata.

Il 10 ottobre io e mia madre abbiamo una discussione, un chiarimento come succede in tutte le famiglie, niente di particolare: non ci picchiamo, non volano i piatti. In quell’occasione io prendo le 60 gocce di Lexotan e mia madre vedendomi farlo, teme che possano farmi male; io le dico che è stato lo psichiatra. a dirmi che potevo prenderle e lei lo chiama per chiedergli se era vero. Lui per telefono nega, forse rendendosi conto di avermi consigliato una cosa assurda, per evitare una figuraccia. Dice a mia madre che avrebbe mandato il 118 e parlato con il medico dell’ambulanza dicendogli di prescrivermi un altro farmaco, e riaggancia senza darle la possibilità di rispondere.

Dopo 10 minuti arrivano sotto casa mia due ambulanze, una per me e una per mia madre, come spiegato la sera stessa a mia madre da uno psichiatra del reparto. La dott.ssa A.B. di Massa entra in casa parlando al telefono col dott. G.A.; si rivolge a mia madre e a mia nonna in modo aggressivo, ordinando loro di uscire dalla stanza. Io rimango lì, seduta sul divano, mentre la dott.ssa A.B. continua a parlare per telefono con lo psichiatra. Non mi guarda, non mi visita, non mi chiede niente, non mi chiede cosa è successo né come mi sento.

Io chiamo mia mamma per chiederle di portarmi il telefono e lei rientra nel salotto. La dott.ssa A.B. la affronta urlando: “Cosa ci fa lei qui, le ho detto di andarsene!” Mia madre si arrabbia e le risponde: “No, a questo punto se ne va lei“. La dott.ssa minaccia: “Guardi che chiamo i carabinieri” e mia madre: “No, i carabinieri li chiamo io!“, riuscendo a far uscire la dott.ssa. Ma le ambulanze non se ne vanno: rimangono lì, davanti al cancello.

Mia madre, spaventata dall’atteggiamento dei sanitari, chiama un suo conoscente, il maresciallo dei carabinieri L.L., che viene insieme a un collega. Il maresciallo mi propone di chiamare il suo medico di famiglia e io accetto, perché dopo la discussione e la venuta delle ambulanze sono spaventata: il comportamento della dott.ssa A.B. mi aveva terrorizzata. Arriva il medico, dott. G.L. e si rende conto che la situazione non è poi così grave; mi fa mezza fiala di Valium. Mentre il medico mi fa l’iniezione i carabinieri dicono alla dott.ssa A.B. di andarsene perché non c’è bisogno di lei, non c’è bisogno di niente.

Le ambulanze se ne vanno, ma dopo circa 10-20 minuti tornano con un provvedimento A.S.O. (accertamento sanitario obbligatorio) firmato dal sindaco e richiesto dalla dott.ssa A.B., medico non psichiatra (del 118 di Massa, mentre io sono della provincia di Lucca, cioè fuori dalle sue competenza territoriali)

Non c’era l’urgenza di un di fare un A.S.O. altrimenti perché non lo aveva proposto il dott. G.L.? La situazione era calma, io non rifiutavo le cure, il medico era venuto a casa mia facendomi un’iniezione: mancavano le condizioni necessarie per un ricovero ospedaliero.

L’A.S.O. in ospedale verrà trasformato in T.S.O. (trattamento sanitario obbligatorio) con la motivazione di “agitazione psicomotoria”. Dopo essere stata portata via da casa con la forza, mentre non stavo facendo niente, da una dottoressa che si è presentata senza essere stata chiamata, “agitazione psicomotoria” è proprio il minimo che potessi avere!

Mia madre non vuole far entrare il personale dell’ambulanza così loro forzano il cancello, entrano con la forza e la legano, braccia e gambe, per impedirle di difendermi. Mia nonna è spaventata e grida, ma un infermiere le dice di stare zitta. La dott.ssa A.B. mi dice che devo seguirla, altrimenti mi avrebbe portata via con la forza. Salgo sull’ambulanza e piango, sono spaventata e piango, dico che voglio dormire , che voglio essere lasciata in pace e voglio dormire. Sull’ambulanza mi viene fatta una fiala di Largactil.

Mi portano in psichiatria, mi lasciano lì e nessuno mi dice niente. Io piango, sono spaventata, sia a causa della scena violenta avvenuta poco prima a casa, sia perché non capisco per quale motivo sono stata portata lì in quel modo, senza aver fatto nulla. Non posso uscire e non so quando potrò uscire. Gli psicofarmaci che ho assunto non mi calmano ed anzi pregiudicano la mia capacità di comprendere quanto sta succedendo così come la mia capacità di esprimermi chiaramente.

Da questo momento non ricordo più niente fino a parecchie ore dopo, quando mi sveglio legata al letto senza sapere il perché e senza neanche il coraggio di chiederlo. Cerco di restare calma; non reagisco, non chiedo niente ed accetto tutto, perché capisco che reagire potrebbe essere pericoloso. Sono terrorizzata. Mi lasciano ancora a lungo legata al letto, fino alla sera, all’orario delle visite, quando mi tolgono le cinghie perché mia madre non mi veda in quel modo. La fanno entrare dopo averle perquisito la borsa, accompagnata da due guardie giurate con la pistola bene in vista.

Mia madre si rivolge subito ad un avvocato ed il 13 ottobre verrò dimessa.

Durante il T.S.O. vengo trattata con psicofarmaci, prevalentemente neurolettici, soprattutto il primo giorno: Largactil, Tavor, Valium, Risperdal, Stilnox….

Naturalmente nessuno si preoccupa di capire se la mia agitazione possa in realtà essere dovuta ai farmaci precedentemente assunti: le benzodiazepine (Lexotan, Valium, Tavor) possono provocare stati d’agitazione e i neurolettici (Largactil, Risperdal) possono anch’essi provocare forti stati di agitazione psicomotoria (acatisia) e addirittura portare a delirio e allucinazioni. Non mi hanno fatto esami del sangue volti a chiarire se la situazione potesse essere dovuta a reazioni paradosso agli psicofarmaci, ma hanno continuato a somministrarmene fino a stendermi.

In reparto dormo costantemente e sbavo continuamente. Nei momenti in cui mi risveglio mi trovo tutti i capelli appiccicati al viso e al cuscino, tutti pieni di saliva.

All’orario dei pasti non mi è permesso alzarmi dal letto per mangiare nella sala, come fanno tutte le altre degenti. Non posso uscire dalla stanza. Solo il quarto giorno, poco prima di essere dimessa, mi viene permesso di pranzare nella sala, così chiedo ad una ragazza come si trovi in quel reparto e lei mi risponde: “E’ come un carcere”.

Durante il T.S.O. nessun medico mi visita. La terza sera passa il primario, M.D.F. seguito da altri psichiatri, a cui dice riferendosi a me: “Questa ragazza non ha niente, ha solo litigato con la madre” e passano oltre.

Sempre la terza sera vedo un’altra cosa che mi sembra un po’ strana: passa l’infermiera con il carrello dei farmaci dove ci sono tutti i bicchierini con le pasticche e i nomi delle ricoverate. Dentro i bicchierini c’è sempre lo stesso farmaco in diverse dosi: Risperdal, un neurolettico. Così tutte assumevamo lo stesso farmaco, a prescindere da quali fossero i disturbi lamentati e dal perché ci trovassimo lì.

II quarto giorno, quando vengo dimessa, vengo sottoposta ad un colloquio con la dott.ssa M.G.. Lei mi fa diverse domande e io rispondo con calma. Diversi mesi dopo, quando ritiro e leggo la mia cartella clinica, mi accorgo che lei ha selezionato e strumentalizzato le mie parole, rigirandole in modo da giustificare una diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo.

Esattamente in quell’occasione dissi che la mia vita nell’arco dell’ultimo anno era cambiata completamente e che si erano verificate molte situazioni problematiche. Ero costantemente preoccupata, al punto che non riuscivo a smettere di pensare a come avrei potuto risolvere tutte quelle situazioni nuove che si erano presentate: la mia mente era sempre occupata nella ricerca di una soluzione per i miei problemi pratici. Tutti questi problemi mi avevano buttato giù di morale e per questo mi ero rivolta al dott. G.A.. Raccontai di come la meditazione, disciplina che praticavo da anni, mi fosse di grande aiuto in quel periodo. Questa consiste in pratiche di concentrazione volte a calmare il pensiero che è indisciplinato, tendiamo cioè a pensare e reagire in modo automatico secondo modelli precostituiti ed abitudinari. Mediante questo allenamento è possibile imparare a pensare in modo attivo, slegato dai modelli abitudinari di pensieri e reazioni, al fine di risolvere in modo creativo i problemi che si presentano in base alla situazione presente, adottare soluzioni nuove a nuovi problemi, anziché vecchie soluzioni a nuovi problemi.

Leggendo la cartella clinica mi accorgo anche che sugli appunti del 10 ottobre ci sono delle cose che io ho detto il 13 ottobre alla dottoressa M.G.: mi sembra improbabile se non impossibile che io abbia detto le stesse cose e con le stesse parole in due momenti diversi.

Vengo dimessa con un prescrizione di Risperdal, 7,5 mg al giorno, un dosaggio anche abbastanza alto di un farmaco pericoloso, che tra l’altro non è neanche adeguato alla diagnosi (di un disturbo che non ho!). Naturalmente non vengo avvertita dei rischi, non mi viene data alcuna informazione sul farmaco, che mi viene consegnato direttamente dalla dott.ssa e dalla cui confezione manca il foglietto illustrativo.

Sempre al momento della dimissione vengo informata, insieme a mia madre e al mio fidanzato, che mi è stata fatta una puntura e che dovrò tornare lì a ripeterla. Tale iniezione nella cartella clinica non è stata annotata!

Subito prima di essere dimessa viene a parlarmi anche il primario: dice di aver litigato per telefono con il dott. G.A. e che non devo prendere mai più Anafranil, che DEVO scegliere uno psichiatra della struttura e andare lì a curarmi. Dice che DEVO prendere assolutamente il Risperdal (strano perché la sera prima aveva detto che io non avevo niente!). Mi parla con un tono di voce piuttosto autoritario, ripetendo le cose più volte come se si rivolgesse ad una persona che non capisce, mentre io ero solo intontita dai farmaci. Dice al mio fidanzato che non deve farmi tornare a casa, che deve tenermi lontano da mia madre e che se non si prende questa responsabilità non mi faranno uscire (ma che ne sa dei miei rapporti con mia madre, visto che non aveva mai parlato né con me né con lei?).

Tornata a casa sto molto male, sia a causa della violenza subita, sia a causa dei farmaci che continuo a prendere credendo di averne bisogno.

Sbavo, non riesco a parlare correttamente, quando cammino inciampo spesso e cado; incontinenza, insensibilità al dolore, la luce mi da fastidio e i miei sensi sono ovattati; mi viene febbre e una bronchite che durerà fino alla metà dell’estate 2006. Non riesco a far niente, non trovo la forza di alzarmi dal letto, vestirmi e uscire; non riesco più a pensare in modo attivo, ad applicarmi nella ricerca di soluzioni pratiche ai miei problemi quotidiani. Non riesco a concentrarmi su niente, a leggere e neanche a guardare programmi televisivi. Piango spesso, perché la mia vita è completamente cambiata in modo violento e improvviso in seguito al T.S.O.. Ho delle macchie marroni nell’occhio destro e tutta la parte sinistra del viso è eccessivamente rilassata e cadente, mentre la parte destra è contratta; ho spasmi intorno agli occhi e quando parlo storgo la bocca verso destra.

Stavo sempre peggio e non avevo idea che quelli fossero effetti collaterali del Risperdal che provoca ansia, tristezza, sofferenza interiore molto forte e mancanza di voglia di agire.

Ho continuato a prendere il Risperdal per circa 1 mese.

Durante questo periodo il mio fidanzato, vedendo che stavo peggiorando a vista d’occhio, si rivolse al reparto per chiedere cosa dovevo fare, ma venne fermato da un infermiere che gli disse: “Non la riportare assolutamente qui, perché te la ricoverano di nuovo e alla fine te la rovinano del tutto”.

Dopo un mese trovo un libro, “Chimica per l’anima”, capisco cosa sono i neurolettici e interrompo di colpo e di mia volontà l’assunzione del Risperdal.

Stavo molto male e mi ero rivolta nuovamente al dott. G.A. Nella confusione dell’accaduto e a causa dei farmaci che limitavano la mia capacità di comprensione degli eventi, non avevo capito che era stato lui a farmi ricoverare, io credevo fosse stata la dott.ssa A.B.

Ci torno diverse volte e lui cerca di mettere me e il mio fidanzato contro mia madre e il mio fidanzato contro di me. Ci fa credere che la dott.ssa A.B ha richiesto l’ASO a causa del comportamento di mia madre. Continua a insistere sia con me che con il mio fidanzato che è mia madre la causa del mio malessere, che mi avrebbe rovinato la vita (cosa che diceva spesso anche prima del T.S.O.) e che è lei che deve essere curata.

Insiste così tanto che alla fine io e il mio fidanzato convinciamo mia madre a fare una visita con lo psichiatra che ci consiglia: un certo dott. B.A. Mesi dopo leggerò sulla mia cartella clinica il nome dello psichiatra che ha richiesto il T.S.O. mentre ero in reparto: il dott. B.A., lo stesso amico del dott. G.A. da cui avevamo portato mia madre! Ripensandoci, ricordai come tale dott. B.A. durante la visita con mia madre sembrasse molto imbarazzato: io non lo avevo riconosciuto, ma lui probabilmente si ricordava di me.

Il dott. G.A. insisteva anche su un’altra cosa: io dovevo andare via da casa di mia madre. Cercava di convincere il mio fidanzato a vendere la sua casa a Massa per prenderne una per me ad Ortonovo, dove lui, così disse, aveva il controllo del 118. Gli disse letteralmente: “Così, se la porta ad Ortonovo, ce l’ho sotto la mia cappella”; questo potrebbe anche significare “sotto il mio controllo”, ma è anche un doppio senso osceno perché in dialetto cappella significa glande. Mi soffermo su questo particolare poiché lo psichiatra mi aveva già fatto domande strane in passato, del genere “Ma tu desideri il tuo fidanzato? Non è che hai fantasie sessuali verso uomini più anziani di te, figure paterne, che ti diano un senso di autorità e potere?”. Queste cose le avevo anche riferite al mio fidanzato, ma lui, plagiato com’era, mi rispondeva che secondo lui erano domande normali, che ero io a trovarle strane “Perché mi fisso, perché sono ossessiva compulsiva”, come gli aveva insegnato a dire il dott. G.A..

Il mio ragazzo era preoccupato per me e lo aveva chiamato per telefono diverse volte, a mia insaputa, chiedendogli cosa poteva fare per me, come mi poteva aiutare (io piangevo sempre ma lui non poteva sapere che la causa erano i neurolettici). Egli gli aveva risposto che lui non poteva fare niente per me, “Che la cosa migliore era lasciarmi nelle sue mani, perché solo lui poteva curarmi, perché io ero gravemente malata e non mi rendevo conto della mia malattia. La scelta migliore sarebbe stata lasciarmi, altrimenti io avrei rovinato anche la sua vita, tanto oramai io non sarei stata più bene, sarei costantemente peggiorata, e le persone malate di mente distruggono la vita a chi gli sta vicino.”

L’ultima volta che vado dal dott. G.A, c’è una signora in sala d’aspetto: è in cura da lui da 10 anni con psicofarmaci neurolettici; racconta diverse cose sulla sua vita e su come l’ha curata il dott. G.A.. Sembra innamorata di lui! Quando il dottore arriva io, già insospettita dalle parole di questa donna, noto che i due hanno un modo di parlare strano, eccessivamente confidenziale, come se ci fosse tra loro qualcosa che va al di là del normale rapporto che si instaura tra un medico e una paziente. Quindi collego diverse cose tra loro e quando parlo col dottore porto il discorso sul T.S.O., fingendo di incolpare mia madre e conducendolo così ad ammettere che era stato lui a farmi finire in psichiatria: lo ammette sia davanti a me, sia poco dopo, quando faccio entrare mia madre.

Racconto tutto al mio fidanzato e decido di non tornare più a quelle visite: il mio fidanzato, convinto dallo psichiatra durante una telefonata avvenuta subito dopo quest’ultima visita, mi lascia e rimaniamo separati per alcuni mesi. Diversi mesi dopo, quando il mio fidanzato capisce cosa era successo veramente telefona di nuovo al dott. G.A. dicendogli: “Ma cos’ha fatto! Ha fatto il TSO alla mia ragazza e le ha rovinato la vita. Ha rovinato anche il nostro rapporto, per colpa sua ci siamo lasciati”. Il dottore gli rispose con un tono di presa in giro: “Oh, mi dispiace, mi scusi”, Il mio fidanzato gli disse: “Ma guardi che noi la denunciamo” e G.A. rispose: “Fate pure. Tanto io sono una persona potente e la sua ragazza l’ho fatta passare per matta e nessuno le crederà mai.”.

Mi rivolsi ad un altro psichiatra raccontandogli di stare male a causa del TSO: questo faceva finta di credermi ma non mi credeva. Stavo molto male: tutto quello che era accaduto era stato un grande trauma e la mia vita era completamente cambiata. Malgrado l’abuso subito non mi rendevo conto di quanto fosse pericoloso il mondo della psichiatria e continuavo a pensare che con me avevano commesso un errore, che avevo incontrato gli psichiatri sbagliati, che si era verificato un malinteso iniziale che aveva portato al disastro. Continuavo a cercare lo psichiatra giusto, il farmaco giusto.

Le umiliazioni che ho subito da parte dei medici sono innumerevoli: concludevano tutti che se mi avevano fatto il TSO e dato i neurolettici voleva dire che ero malata. Partivano da questo pregiudizio e non c’era assolutamente nessun modo di spiegare come erano andate le cose. Mi prescrivevano sempre nuovi farmaci: Cymbalta, Anafranil, Nopron, Tavor, Valium, Xanax, Lamictal,…. Si verificavano continuamente incomprensioni ed equivoci che potevano espormi al rischio di altri trattamenti dannosi e non necessari.

Questo è continuato fino all’agosto 2006. In quel periodo ero ormai convinta che non sarei mai più stata serena e felice, che la mia vita era finita e che tutto ciò che mi rimaneva era soffocare la mia sofferenza attraverso il Tavor che mi permetteva di sopravvivere, almeno finché avesse funzionato.

Ho cominciato ad informarmi a proposito dei farmaci attraverso internet e mi sono resa conto che abusi come quello che avevo subito io, o anche peggiori, succedono continuamente in psichiatria. Ho visto come molte persone stiano male a causa degli psicofarmaci. Attraverso un libro sono venuta a conoscenza della storia della psichiatria, della sua ideologia e dei metodi brutali da essa adottati nel corso dei secoli.

È stato uno shock, piangevo continuamente. È stato come se, oltre alle mie sofferenze, mi fossero piombate addosso anche quelle di milioni di persone danneggiate dalla psichiatria nel corso dei secoli e nel presente.

Un medico a cui ho raccontato l’abuso subito mi ha creduto. Gli dissi che volevo smettere gli psicofarmaci perché non volevo più assolutamente avere contatti con la psichiatria così mi ha fatto uno schemino per scalare i farmaci.

Smettere i farmaci è stato come un salto nel buio, perché avevo paura di averne bisogno, ma a quel punto la mia convinzione era che se tanto dovevo stare male, potevo farlo benissimo anche senza psicofarmaci e senza psichiatria. Invece con il passare dei mesi sono stata progressivamente meglio: non sono più triste né disperata né spaventata né ansiosa e non penso più che la mia vita sia finita.

Psicologicamente sto bene. Soprattutto non sono più drogata dai farmaci, ho recuperato la mia lucidità così come la mia capacità di interpretare correttamente gli eventi e il mio autocontrollo. Ho ricominciato a vivere e a coltivare i miei interessi e adesso ho tantissimi amici che mi stimano e che, conoscendomi bene, non riescono a comprendere come sia potuta accadere a me questa vicenda così assurda. Anche il rapporto con il mio fidanzato, che il dott. G.A.. aveva rovinato, è tornato soddisfacente, grazie alla mia determinazione di far chiarezza sull’accaduto e di riprendere in mano la mia vita.

Comunque a distanza di 2 anni dal T.S.O. continuo a soffrire di movimenti involontari del volto e talvolta anche degli arti che sono stati causati dai neurolettici. Spesso, a causa di questi spasmi, mi mordo l’interno della bocca durante la masticazione, procurandomi ferite. Inoltre rischio di soffocare, poiché cibi e pasticche mi vanno per traverso, a causa della riduzione della capacità di controllare i miei movimenti volontari.

I medici che mi hanno visitato per questi disturbi mi hanno detto che molto probabilmente oramai non passeranno più. Discinesia tardiva e distonia tardiva. Non esistono neanche cure specifiche per ridurre questi movimenti che sono molto fastidiosi, insistenti e accompagnati da dolore tipo nevralgia.

Questi spasmi rendono tutte le mie ore di veglia senza pace, senza riposo; danneggiano la mia immagine e mi è molto più difficile trovare un lavoro (io ho lavorato in un negozio ed ho esperienza come commessa): molte persone a cui mi sono proposta, vedendo le smorfie sul mio volto, mi hanno trattato con eccessiva gentilezza, una gentilezza compassionevole, dopo di che non mi hanno richiamato.

Magari molte persone mi potrebbero giudicare “malata psichica” a causa di questi movimenti, non sapendo in realtà che sono stati i farmaci a provocarli; e poi anche qualora lo sapessero penserebbero che siccome ho preso i farmaci probabilmente ne avevo bisogno.

MA NON SONO IO A DOVERMI VERGOGNARE PER QUESTA FACCIA DA MANICOMIO!

Ciò influenza negativamente la mia vita sociale e lavorativa, presente e futura, nonché la qualità della mia vita. La meditazione, che io praticavo da moltissimi anni e che era per me un elemento di arricchimento, non potrò più praticarla a causa di questi spasmi. Così come non potrò più coltivare un’altra delle mie passioni, lo snorkeling, non potendo sopportare la maschera sul volto ed avendo perso, dopo il T.S.O., la capacità di nuotare.

LA MIA VITA È COMPLETAMENTE CAMBIATA, CAMBIATA PER SEMPRE. HO UN DANNO PERMANENTE, PERCHÈ? PERCHÈ MI HANNO “CURATO” CONTRO LA MIA VOLONTÀ!!!

Anche per cercare di capire cos’era questo disturbo ho dovuto subire moltissime umiliazioni dai medici. Mi sono rivolta a diversi neurologi e ne ho dovuti girare parecchi prima di trovarne uno disposto a fare gli accertamenti. Uno di loro, dopo cinque minuti, sulla base del fatto che avevo preso per un periodo antidepressivi e per un altro neurolettici, mi chiese se avevo il disturbo bipolare! Ad un altro, che mi aveva fatto la stessa scena, chiesi come si fosse permesso di farmi una diagnosi dopo 5 minuti solo basandosi sui farmaci che avevo preso e senza considerare che il TSO era stato un errore. Mi rispose che se me lo avevano fatto sicuramente avevano ragione, “Sono sicuro che lei è matta e che di TSO gliene faranno ancora tanti nella vita, anzi se non se ne va glielo faccio fare io”.

La psichiatria ti toglie la dignità.

Ti possono fare veramente di tutto perché sanno che non puoi difenderti. Tutto quello che dici o che fai non ha più alcun valore, anzi tutto viene strumentalizzato per essere usato contro di te, come ulteriore prova della tua “malattia mentale”. I trattamenti ti possono venire imposti con la forza e tu non li puoi discutere né rifiutare, perché questo è considerato rifiuto della terapia e ulteriore segno di “malattia mentale”. Non puoi dire che un determinato farmaco ti fa male perché sei considerato “malato mentale” e quindi non in grado di capire di cosa hai bisogno (come se potessero sapere meglio di te come ti senti!). Se poi dici che non sei malato di mente ma che stai male per qualche situazione contingente allora sei ancora più grave perché non ti rendi conto della tua “malattia”. La tua vita non ti appartiene più e se subisci delle violenze queste non sono poi così facili da dimostrare, perché sei screditato, perché sei considerato il “matto” che va a raccontare di aver subito un ingiustizia da parte del suo psichiatra, il quale è considerato autorevole, attendibile e di indubbia moralità. Il tuo “delirio di persecuzione” sarà un ulteriore prova della gravità della tua “malattia”, un’ulteriore scusa per sottoporti a ulteriori trattamenti.

È facile entrare in questo meccanismo anche per cose banali e rimanere coinvolti in un susseguirsi di circostanze da cui si potrebbe anche non uscire mai più, anzi da cui spesso non si esce mai.

Quando dobbiamo superare momenti difficili della vita, la società, le persone che ci stanno vicine, le opinioni autorevoli ci insegnano che si può ricorrere all’aiuto di uno psichiatra e degli psicofarmaci, per superare il periodo. Ci viene insegnato che le emozioni negative sono malattie, non normali risposte dell’uomo agli eventi esterni. Ci viene insegnato che si deve essere sempre contenti e soprattutto attivi, tirare avanti in qualsiasi circostanza ed essere come gli altri ci vogliono altrimenti siamo “malati” e ci si deve rivolgere ad uno psichiatra.

LE EMOZIONI NEGATIVE NON SONO MALATTIE.

L’abuso psichiatrico è una violenza che investe il soggetto in tutti i piani dell’essere: fisico, mentale, sociale, emotivo, etc.. Penso che sia una delle esperienze peggiori che si possono fare nella vita. È una totale privazione del diritto di gestire la propria vita; è peggio del carcere: non si è accusati di un reato ma di un pensiero, non c’è un processo, non si ha diritto ad una difesa.

Loro vogliono chiamarsi medici dell’anima ma sono come poliziotti della mente. IL LORO FINE NON E’ IL BENESSERE DEL PAZIENTE, MA IL CONTROLLO E LA REPRESSIONE DELLE MANIFESTAZIONI ESTERNE DELLE SUE SOFFERENZE.

Ascoltano i loro pazienti a partire da una diagnosi fatta superficialmente e questa diagnosi costituisce un pregiudizio, perché non si può assolutamente “vedere” chi ci sta davanti quando partiamo dalla convinzione che ogni pensiero e ogni comportamento siano frutto di un processo psicopatologico.

GLI PSICHIATRI PRESCRIVONO TRATTAMENTI CHE DISTRUGGONO FISICAMENTE I PROPRI PAZIENTI E LO FANNO CONSAPEVOLMENTE !!!

LORO, SONO “SANI DI MENTE” ?!»

E.C.

Fonte: https://www.ccdu.org/testimonianze/violenza-fisica-e-mentale-inaudita

allontanamenti dalle famiglie: come difendere I propri figli

Allontanamenti dalle famiglie e affido dei bambini: come difendere i propri figli

Risultati immagini per abuso minori

Vademecum: Come difendere i propri bambini dagli allontanamenti dovuti a errori o valutazioni errate di certi psicologi, psichiatri e assistenti sociali della giustizia minorile

Nota: dalla colonna di destra è possibile scaricare buona parte dei documenti citati a partire dalla legge del 28 marzo 2001, n. 149 “Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori».

Per quanto riguarda i codici deontologici, questi a volte vengono aggiornati e quindi con il passare del tempo potrebbero esserci nuove versioni rispetto a quelle pubblicate nel sito.

Il fenomeno degli allontanamenti facili o superficiali

Il fenomeno di cui parliamo è conosciuto come “falsi abusi e allontanamento coatto dei bambini dalla famiglia e loro collocamento in comunità alloggio, affido o adozione”.

Le statistiche rivelano che circa il 20% degli allontanamenti coatte, e il successivo affidamento a strutture di accoglienza o famiglie affidatarie, sono motivati da assenza dei genitori (provvedimenti carcerari, morte di entrambi i genitori), maltrattamenti o abusi. Il rimanente 80% circa avviene con la motivazione di “inidoneità genitoriale“ (spesso riconducibile a sottostanti motivazioni di natura economica o abitativa). Questa motivazione ha aperto le porte a innumerevoli abusi.

Tramite valutazioni – per loro stessa natura soggettive e opinabili – alcuni psichiatri, psicologi e assistenti sociali, con una formazione inadeguata o scarsa competenza in campo minorile o famigliare, possono indurre il Tribunale dei minori a prendere provvedimenti drastici e drammatici, allontanando i figli alla famiglia, collocandoli in comunità tutelari per minori, mettendoli poi sotto indagine, analisi e quant’altro. La famiglia, nella maggioranza dei casi, è totalmente impotente di fronte a questo sistema che opera con l’ausilio, se i genitori si rifiutano, della forza pubblica.

Allontanamenti errati dei minori, come difendersi

La materia è alquanto complessa ma riportiamo qui alcune informazioni (tratte dall’esperienza diretta con i casi) che i genitori dovrebbero conoscere per evitare esiti drammatici o per tentare di sanare gli eventuali errori commessi dal sistema della giustizia minorile. Le informazioni sono fornite in ordine di importanza e priorità.

1. Attivarsi subito

Questo passo è importantissimo. Meglio spendere 1.000 euro subito per un legale o per un professionista che 10.000 euro dopo per riportare a casa il minore allontanato ed affidato ad una comunità (senza pensare ai danni insanabili causati al minore dall’allontanamento coatto). In anni di esperienza abbiamo potuto osservare che i pregiudizi e le false o errate valutazioni iniziali (di natura soggettiva e psicologica) di psichiatri, psicologi e assistenti sociali, con una formazione errata e inadeguata o una scarsa competenza in ambito minorile o famigliare, tendono ad accumularsi e a divenire sempre più solide con il passare del tempo. La reazione, spesso disperata e confusa, delle famiglie di fronte alle false accuse e all’allontanamento tende a rinsaldare la convinzione dei servizi e dei professionisti della validità delle accuse iniziali. È un cane che si morde la coda.

Prima ci si attiva per ristabilire verità e giustizia, maggiori sono le possibilità di proteggere i propri figli da errori e ingiustizie.

Una mamma era venuta a un convegno dove avevamo messo in guardia le famiglie su questi pericoli, ma lei era convinta che essendo laureanda in pedagogia non le sarebbe mai potuto succedere. Purtroppo un anno dopo le hanno tolto il figlio.

Possiamo contare numerosissimi casi in cui la famiglia si è attivata subito, ed è stato possibile chiarire le cose e impedire l’allontanamento dei minori ed il conseguente affidamento ad una comunità. In un caso i servizi sociali avevano addirittura individuato la famiglia affidataria per il bambino, ma grazie all’immediato interessamento della famiglia si è scoperto che quella soluzione era sbagliata e la bambina è rimasta in famiglia. In un altro caso, una mamma ha fatto mandare una lettera dall’avvocato per chiarire le cose e nell’incontro successivo l’assistente sociale l’ha informata che non c’era più alcun rischio di allontanamento.

Purtroppo molte famiglie si sentono tranquille perché non hanno fatto nulla di male e si muovono quando ormai è troppo tardi e il danno è stato fatto. A quel punto è molto più difficile correggere l’errore.

E dopo l’allontanamento a volte si attiva un meccanismo “perverso”. Il provvedimento, la sottrazione del minore, è talmente grave che successivamente il Tribunale, seppur di fronte all’emergere di una realtà diversa o in ogni caso non così allarmante quanto la denuncia iniziale aveva fatto credere, spesso non ammette di essere stato tratto in inganno e si intestardisce a dare la parola e il potere di gestire il caso agli stessi professionisti o assistenti sociali che hanno commesso l’errore o la valutazione errata. Anche se spesso sono in buona fede, ora sarà molto più difficile cercare di chiarire la situazione.

Approfondimenti: vedere a destra: “Tribunale per i minorenni: una giustizia priva di confini”.

2. Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia

L’articolo 1 della legge 149/2001 dice: ”Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia.” Facciamo notare che il diritto è del minore e non dei genitori.

Si tratta, com’è evidente, del principio ispiratore della legge: la sottrazione dovrebbe essere l’eccezione, non la regola. Tutte le persone coinvolte: psicologi, psichiatri, assistenti sociali, avvocati e giudici minorili dovrebbero fare di tutto per garantire questo fondamentale diritto del minore e rispettare il principio ispiratore della legge.

È importantissimo che ci sia l’accordo su questo principio ed più essenziale continuare a ricercare l’accordo di tutti su questo principio. Potrebbe apparire scontato in teoria, ma a volte non lo è nella pratica.

Ogni sforzo dovrebbe essere volto a mantenere i figli in famiglia o con i parenti fino al quarto grado, o a far rientrare i figli in famiglia.

Se non si percepisce questa tensione in direzione del garantire questo diritto del minore da parte di tutte le persone coinvolte, si dovrebbe cercare di ottenere l’accordo della persona (o persone) coinvolta chiarendolo direttamente con lui/lei, rivolgendosi al suo superiore, e così via. Questa intenzione dovrebbe manifestarsi in atti e azioni concrete. Insistendo su questo punto si chiede solamente l’applicazione della legge.

Approfondimenti: vedere la Legge 149/2001 nella colonna di destra.

3. Progetto SCRITTO e PARTECIPATO

Questo è un punto molto dolente. Finora non ci è mai capitato di vedere un progetto scritto e partecipato (controfirmato da tutti) per mantenere i figli in famiglia o con i parenti fino al quarto grado, o per far rientrare i figli in famiglia. Spesso si naviga a vista a tutto discapito dei minori.

Non sono necessari riferimenti: se chiedete a qualsiasi operatore o assistente sociale vi dirà che questa è la pratica standard.

Il progetto consentirebbe alla famiglia di sapere in maniera certa cosa sia necessario fare per mantenere (o riportare) il minore a casa. Eppure non viene fatto. Nessuno fa firmare questo progetto alla famiglia per accettazione. Insistete per avere questo progetto scritto e controfirmato da voi e dall’assistente sociale con delle azioni, misure e tempistiche chiare e precise per mantenere o riportare i figli in famiglia.

Approfondimenti: vedere notiziario assistenti sociali 2010 nella colonna di destra.

4. Programma di rafforzamento della genitorialità

Anche questo è un punto dolente. Purtroppo questo progetto di rafforzamento o recupero della genitorialità spesso non viene fatto neppure per i casi di cui al punto 3 in cui, con un aiuto adeguato alla famiglia, forse l’allontanamento dei figli non avrebbe dovuto neppure essere attivato. Abbiamo riscontrato moltissimi casi eclatanti in cui non è stato fatto un progetto per anni.

Il nostro comitato si occupa di errori e violazioni dei diritti e spesso, nella nostra esperienza pluriennale, abbiamo dovuto constatare la mancanza di un progetto di questo tipo, eppure dovrebbe essere la prassi. Nell’articolo 4 della legge 28 marzo 2001, n. 149 si prescrive: “Nel provvedimento di cui al comma 3, deve inoltre essere indicato il periodo di presumibile durata dell’affidamento che deve essere rapportabile alcomplesso di interventi volti al recupero della famiglia d’origine.”

Indipendentemente dal tipo o motivazione dell’allontanamento, insistete per avere un progetto scritto e controfirmato da voi e dall’assistente sociale con le azioni, misure e tempistiche chiare e precise per riportare i figli in famiglia. È un vostro diritto!.

5. Siate cittadini, non sudditi

Purtroppo molti assistenti sociali, psicologi e psichiatri non si rendono conto (ma a volte ci viene il dubbio che lo sappiano benissimo) del potere smisurato che hanno sulla vita delle famiglie.

Spesso nel decreto di allontanamento viene assegnato loro il potere di decidere il regime di visite dei minori.

La sospensione o riduzione delle visite è la minaccia più ricorrente che ci è stata riferita dai genitori. È comprensibile quindi che si crei un rapporto malato di sudditanza. Una protesta o contestazione potrebbe essere vista da alcuni come “mancanza di collaborazione” o “comportamento oppositivo”.

Ma insistere educatamente per far valere i propri diritti alla fine paga.

6. Procuratevi i documenti e leggeteli

A volte la famiglia non conosce neppure il motivo per cui i figli sono stati allontanati. I servizi sociali dovrebbero avere una cartella sociale a cui potete accedere. Lo stesso vale per la cartella processuale e per le eventuali cartelle cliniche.

Non serve l’avvocato, andate direttamente negli uffici preposti e fate una richiesta scritta.

Certamente fa male leggere le accuse (a volte persino falsità e pettegolezzi) e le valutazioni psichiatriche e psicologiche (spesso soggettive e a volte dense di pregiudizi) che sono state scritte su di voi, ma come potete difendervi se non sapete di cosa siete accusati esattamente?

Studiatevi anche le leggi e regolamenti fondamentali in materia:

  • Legge 149/2001 articoli da 1 a 5, articoli 29 e 30 della Costituzione Italiana, articoli del Codice Civile dal 315 in poi, in particolare l’articolo 330.
  • Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989.
  • Codici deontologici di assistenti sociali, psicologi, medici, avvocati (forense).
  • Linee guida locali sull’affidamento minorile.
7. Attenzione ai conflitti di interesse

I conflitti di interesse nella giustizia minorile sembrano essere talmente radicati che le persone non ne sono più nemmeno consapevoli. Se qualcuno ha un conflitto di interessi non sarà abbastanza equilibrato da poter aiutare la famiglia in modo disinteressato.

Una breve ricerca su Internet potrebbe chiarire molti comportamenti apparentemente inspiegabili di alcuni operatori e professionisti (si veda ad esempio: http://youtu.be/MfM35K7pscg).

La mancata adesione sincera al principio di cui al punto due di cui sopra (diritto del minore di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia) è il primo indicatore di un possibile conflitto di interesse.

8. Altre indicazioni
  • Procurarsi un registratore per gli incontri con servizi e operatori, soprattutto quelli più importanti, per ricordarsi quello che è stato concordato a voce. Se pensate che registrare di nascosto sia illegale, leggete http://www.gildavenezia.it/normativa/schede/registrazione_riunioni_colloqui.htm
  • Soprattutto in caso di servizi, operatori o professionisti incompetenti, prevenuti o addirittura maldisposti, mettere qualsiasi richiesta o comunicazione per iscritto al fine di poter accertare la loro mala fede e ottenere la loro sostituzione e anche una sanzione adeguata per il loro comportamento
  • La stampa e la protesta pubblica dovrebbero essere l’ultima risorsa nel caso in cui nessuno ascolti. Se possibile farsi aiutare sempre da un’associazione perché una protesta fatta male o con argomenti o messaggi errati potrebbe essere controproducente
  • Denunciate formalmente le violazioni dei diritti umani, della legge e dei regolamenti e protocolli e gli eventuali conflitti di interesse. Le denunce andrebbero fatte anche e soprattutto dopo che le cose si sono risolte, al fine di correggere e sanzionare gli operatori che hanno sbagliato e impedire che questi drammi si ripetano. Spesso le famiglie vorrebbero solo godersi i figli in pace e dimenticare tutto, ma pensate al dolore che avete provato voi e pensate che la vostra denuncia potrebbe impedire che altre famiglie soffrano come voi. Se possibile farsi aiutare sempre da un’associazione o da un professionista onesto e senza conflitti di interesse perché una denuncia fatta male o con argomenti errati potrebbe essere controproducente
  • Partecipate alle manifestazioni di protesta su questi temi. Alcuni genitori ci hanno riferito di essere stati minacciati o di essersi trovati dei commenti nelle relazioni per la loro partecipazione a manifestazioni di protesta sul sistema dell’assistenza minorile. Non ci risulta che questo sia mai stato preso in considerazione dai giudici o che tali intimidazioni siano mai state attuate. Anzi in realtà, in base alla nostra esperienza, dopo una protesta pubblica, all’atto pratico i servizi e gli operatori si sono dimostrati più attenti e rigorosi e la situazione è migliorata. In ogni caso siamo ancora in uno stato democratico e i cittadini hanno ancora il diritto di manifestare. Abbiamo provveduto a denunciare e continueremo a denunciare questi abusi d’ufficio e tentativi di ingerenza antidemocratica nella vita delle famiglie.

Fonte: https://www.ccdu.org/minori/affido-bambini

Giardiello, il killer del tribunale di milano: un altro successo della psichiatria?

Claudio Giardiello, parla la moglie: «con noi si è sempre comportato bene»

C’è voluto qualche giorno, ma alla fine si scopre che anche in questo caso, come del resto in tutti i casi di delitti più efferati e insensati, il carnefice aveva un trascorso psichiatrico.

Al TG1 della notte del 13 aprile 2015, la ex-moglie di Giardiello rivela: «È successa tutta questa crisi nel suo lavoro, incomprensioni con i suoi soci e lui era in difficoltà. Non dormiva più, si sentiva abbandonato. Voleva essere aiutato perché stava male, era depresso, prendeva psicofarmaci. Non si è sentito capito»

Sappiamo ora che la cura non ha funzionato e siamo di fronte ad un altro clamoroso successo della psichiatria.

Airbus germanwings caduto in francia: un altro successo della psichiatria?

image

Apprendiamo che Andreas Lubitz, il copilota del volo Germanwings caduto in Francia «sospese il training per depressione».

Ciò significa che è stato in cura psichiatrica.

Sappiamo quindi una cosa: la cura non ha funzionato.

Ci sarà un’autorità che avrà la decenza di ordinare una completa investigazione per accertare se Lubitz stava ancora assumendo sostanze psicotrope e quali, o se stava soffrendo da astinenza da queste sostanze?

Ne dubito. Assisteremo invece ad un probabile spot promozionale sulla necessità di sottoporre ogni pilota di aereo, nave, treno, autobus e (perché no) anche camion ad un periodico screening psicologico con eventuale somministrazione di psicofarmaci per prevenire altri disastri simili.

Tra i soldati americani ne uccide più la psichiatria che non la guerra

Bradley Stone—3rd Mass Killing in 16 Months by Military Personnel Under Influence of Psychiatric Drugs

Thirty-five-year-old Bradley Stone, an Iraq War veteran and alleged killer of six members of his immediate family, is the third recent case of military personnel committing mass murder on the general public while under the influence of psychiatric drugs.

Click here to read this article in full.

Fonte: http://www.cchrint.org/2014/12/30/bradley-stone-3rd-mass-killing-in-16-months-by-military-personnel-under-influence-of-psychiatric-drugs/

Robin Williams non prendeva droghe psichiatriche suicidarie… anzi sì !!

Contrary to News Headlines, Robin Williams Was on Drugs at the Time of His Death—Antidepressant Drugs

 

RobinWilliamsAntidepressant

The antidepressant found in Williams’ toxicology test, Mirtazapine (Remeron), has 10 drug regulatory agency warnings citing suicidal ideation.

By Kelly Patricia O’Meara
November 10, 2014

If news headlines were to be believed about the autopsy findings of beloved actor/comedian Robin Williams, who tragically committed suicide nearly two months ago, no drugs were found in his system at the time of his death, as evidenced by headlines from USA Today, NBC News, the BBC and others proclaiming “no alcohol or drugs” were found. These headlines couldn’t be more wrong.

The medical examiner’s report cites an antidepressant drug was in Williams’ system at the time of his death. The particular antidepressant, Mirtazapine, (also known as Remeron) carries 10  international drug regulatory warnings on causing suicidal ideation.

According to the autopsy results, not only was Williams under the influence of antidepressant drugs, but the powerful antipsychotic Seroquel was also found at the scene and appears to have been recently taken by Williams. While toxicology tests apparently were negative for the antipsychotic Seroquel, the fact remains that a bottle of Seroquel prescribed to Williams on August 4th,  just seven days prior to Williams’ suicide, was missing 8 pills. The Seroquel instructions advise to take one pill per day as needed. Side effects associated with Seroquel include psychosis, paranoid reactions, delusions, depersonalization and suicide attempt.

MCDAWAK EC015The question that has to be asked is why the press continues to promote the idea that no drugs were found in Williams’ system? At what point did mind-altering psychiatric drugs, which have side effects rivaling those of heroin or crack cocaine, stop being called drugs? robin-williams-quoteAnd for those in the press who did “mention” the fact that Williams was found to have antidepressants in his system, the acknowledgement seems to promote the fact that “therapeutic concentrations” of prescription psychiatric drugs “improved his condition and kept him active until his death.”

This is a highly misleading take on the events leading to Williams tragic suicide, especially in light of the fact that not only was Williams receiving mental health “treatment,” he was under the supervision of a psychiatrist, was not abusing illegal drugs and had not “fallen off the wagon.”

The facts regarding antidepressant drugs are these:

  • Food and Drug Administration’s Medwatch Adverse Drug Reports include 470,000 adverse reactions for psychiatric drugs between 2004-2012. The FDA admits only 1% of side effects are ever reported to them, so the actual number of reported side effects is assuredly much higher.
  • Mirtazapine (also known as Remeron) carries the Food and Drug Administration’s (FDA) “Black box” warning for suicidality.
    • There are ten warnings of suicide associated with Mirtazapine alone and suicide is among the top 2 side effects reported to the FDA on this particular antidepressant
  • The FDA’s MedWatch drug adverse event reporting system recorded 411 attempted and completed suicides associated with the antidepressant Mirtazapine alone (and the FDA estimates only 1% of side effects are ever reported to them)
  • 90,000 emergency room visits are attributed to psychiatric drugs each year in the U.S.
  • 23,755 suicides are attributed to psychiatric drugs each year in the U.S. alone.

Give the above data, one can only wonder why Williams’ psychiatric drug use has effectively been dismissed by reporting organizations. A careful review of Williams’ psychiatric “non-drug” use paints a very different tragic story.

What was found in Williams’ system were prescription psychiatric drugs with side effects that not only rival illegal street drugs, but also carry the FDA’s “Black box” warnings—the federal agency’s most serious warnings—about increased thoughts of suicide.

The fact is that two of the drugs Williams had been prescribed list suicidal thoughts as possible side effects. The Seroquel he was prescribed (and appears to have taken in the week prior to his suicide), and the antidepressant that was still in his system at the time of his suicide.  Moreover, considering the FDA’s Medwatch drug adverse event reporting system recorded 411 attempted and completed suicides associated with the antidepressant Mirtazapine alone (and the FDA estimates only 1% of side effects are ever reported to them), it becomes even more bizarre that the world’s press ignore even the possibility that these drugs could be involved in Williams’ suicide.

The much-loved comedian’s death is a great loss, but the tragedy is further compounded by the mainstream press glossing over the serious and well-known association between suicide and the psychiatric drugs Williams was taking. If only the sentiments from one of Williams’ finest roles in Awakeningshad been taken literally in his personal life: “The human spirit is more powerful than any drug and that is what needs to be nourished: with work, play, friendship, family. These are the things that matter.”

CCHR is a non-profit, public benefit organization.

CCHR is a non-profit, public benefit organization.

Kelly Patricia O’Meara is an award-winning former investigative reporter for the Washington Times’ Insight Magazine, penning dozens of articles exposing the fraud of psychiatric diagnosis and the dangers of the psychiatric drugs—including her ground-breaking 1999 cover story, “Guns & Doses,” exposing the link between psychiatric drugs and acts of senseless violence. She is also the author of the highly acclaimed book, Psyched Out: How Psychiatry Sells Mental Illness and Pushes Pills that Kill. Prior to working as an investigative journalist, O’Meara spent sixteen years on Capitol Hill as a congressional staffer to four Members of Congress. She holds a B.S. in Political Science from the University of Maryland.

Fonte: http://www.cchrint.org/2014/11/10/robin-williams-was-on-drugs-at-the-time-of-his-death-antidepressant-drugs/